giovedì 3 aprile 2014

Estro e follia. Il binomio inscindibile dell'arte di ogni tempo.

"Noi pittori si pigliamo la licenza che si pigliano i poeti e i matti". Così Paolo Veronese si pronuncia in tribunale quando, nel 1573, si difende dall'accusa di blasfemia rivolta alle sue celebri "Cene", ricche rappresentazioni di banchetti evangelici in cui abbondano, ingombranti, figure profane di donne, paggi e animali. L'appiglio, dunque, per la sua discolpa viene rintracciato dal Veronese in un'adiacenza stretta tra arte e follia, in quel binomio dialettico che, a più riprese, si è visto manifestarsi sulle tavole di artisti di ogni tempo. E a questo tema ha dedicato un intenso periodo di ricerca la Semmelweis University (Ungheria) i cui scienziati hanno audacemente attribuito al gene della Neuregulina-1 la responsabilità del connubio genio/follia. Ma più che rivolgere lo sguardo all'interno della costituzione umana, nei suoi ingranaggi tecnici e complessi, nei suoi misteri ancora inviolati, credo possa essere interessante osservare ciò che gli artisti ci hanno lasciato a testimonianza di sé e cercare di interpretare, mediante le loro pennellate, ora isteriche ora lucide, ora consapevoli ora trasognate, quei riflessi dell'inconscio che li rendono per noi così attraenti, sublimi, enigmatici. Estro e psicopatia. Il primo nome che viene alla mente nel percorrere il labile confine tra queste due sfere é, fuor d'ogni dubbio, quello di Van Gogh. Van Gogh trascorre la sua esistenza ossessionato dalla teoria pittorica, ripetendo infinite volte gli stessi soggetti, dipingendo in soli quattro anni oltre 650 quadri, cimentandosi compulsivamente nelle complementarità cromatiche. Van Gogh dipinge sedie vuote a testimoniare l'assenza, stanze inabitate a trasmettere un disperato senso di solitudine, il suo volto mutilato a comunicare la violenza dei suoi stati psichici e la gravità della propria condizione mentale. Rinchiuso in manicomio per lunghi periodi (in un manicomio in cui, peraltro, ancora oggi si pratica arteterapia) continua a dipingere, esplorando tutte le variegate possibilità del giallo - colore ricorrente in quegli autori a cui si attribuisce una qualche forma di psicopatologia - in tavole extraordinarie che restituiscono l'idea di una ricerca incessante di stabilità, di quella solidità e costanza che la vita reale sembra ostinata a negargli. Da qui nascono "Davanti al manicomio di Saint-Rémi", "Vaso con iris", "Il ritratto del Dottor Gachet, "Campo di grano con volo di corvi" e tanti altri celebri dipinti. Ed un atteggiamento simile, a tratti border, come potrebbe asserire qualche psichiatra contemporaneo, si rintraccia anche in Oskar Kokoschka, il quale vive una stagnante ed opprimente pressione psicologica seguita all'abbandono da parte dell'amatissima Alma Mahler, musa ispiratrice di "Doppio nudo" e de "La sposa nel vento", due dei più importanti quadri dell'autore. Per Alma Kokoschka prova un sentimento incontenibile, tanto incessante da tormentarlo senza posa, tanto ossessivo da condurlo alla creazione di una bambola dalle fattezze dell'amata che non disdegnerà di portare con sé in pubblico fino al ripudio e alla distruzione finale. E figure femminili profonde, suadenti e demoniache ritornano anche nei disegni di Lautrec, il cui sguardo visionario ed espressionista ante litteram posto al servizio dei cabaret parigini accompagna fedele una vita sregolata, spesa per buona parte nei manicomi in cui (immotivatamente) la famiglia lo faceva rinchiudere. Per lui l'arte sarà un mezzo per tentare il riscatto dalla sua condizione di sano condannato ad una malattia immaginata da altri. E disegnerà scene circensi, lucide e razionali, ironiche a tratti, per testimoniare ai medici la sua salute e presenza mentale. Ma la psicopatologia, vera o presunta, associata all'arte non risparmia nemmeno alcune artiste donne di cui l'800 ci ha lasciato memoria. Pensiamo per esempio a Camille Claudel, musa prima, amante poi di un Roudin che non esiterà a lasciarla, scultrice talentuosa di cui si ricorda la celebre opera "Un pensiero profondo", che spende ben 30 anni nel manicomio angusto in cui finirà i suoi giorni. O pensiamo, ancora, a Dora Maar, fotografa sperimentale di impronta surrealista, amante prima idealizzata e poi abbandonata da Picasso che vede in lei "la donna che piange" e che usa il suo viso per la madre urlante del Guernica. E le esperienze di questi artisti (seppur ve ne sarebbero molti altri da citare) credo comunichino, su tutto, un chiaro messaggio: follia e arte sono profondamente vicine, intessono tra loro legami arditi e inscindibili, complessi e intoccabili, che non si traducono mai, però, in un vero e proprio stile della follia, ma che sfociano in una visibile tendenza a pitture istintive, ad opere rapsodiche e rabdomantiche, quasi disperate, comunicative e quiescenti. Richard Dadd, convinto di essere sotto l'influenza del dio Osiride, dipinge paesaggi inquietanti, densamente abitati da fate e folletti. Federico Seracini, ricoverato a Reggio Emilia per un "delirio ambizioso" (proprio così si legge nella sua cartella clinica), si serve di inchiostro e matita per un'arte visuale che spazia dalla religione alla filosofia. Adolf Wolfly, ricoverato per schizofrenia, si applica in migliaia di collage con ampi riferimenti alla cosmogonia medievale e alle antiche carte geografiche, in cui racconta le
Ritratto del Dottor Gachet, Van Gogh
mirabolanti avventure dei suoi audaci alter ego. Ligabue, artista colpito senza posa da un fato avverso realizza con pennellata veemente quadri allucinati. Artisti, vita, colori, bozze, tavole, manicomi, medici, reclusione. La catena dei collegamenti tra estro e follia sembra diretta e inscindibile. E spinge, certo, ad un possibile cambio di prospettiva. Che la follia non sia, in qualche modo, il presupposto necessario di un'arte che possa effettivamente dirsi tale? O che forse la follia non sia, come scriveva Alda Merini, "solo una maggiore acutezza dei sensi"? 
Ostico sciogliere il dubbio. 

1 commento:

  1. " Con incomparabile capacità allucinatoria il pittore interroga cose e volti e dà loro l'aura poetica che la risposta della sua psiche esige per essi".(Haftmann)
    Sintesi del saggio. BUONO.

    RispondiElimina