sabato 24 dicembre 2011

Il Gramsci linguista, un'interpretazione personale

Introduzione

Gramsci esordisce nell’Università di Torino come aspirante glottologo e conclude la sua attività intellettuale in carcere scrivendo dieci pagine di linguistica teorica. Partendo da questo interesse per la lingua che percorre tutta la vita del filosofo sardo, lo studioso Franco Lo Piparo nel suo testo “Lingua, intellettuali, egemonia in Gramsci” sviluppa una riflessione sull’importanza che tale interesse ha per il pensiero filosofico e politico di Gramsci e su come le questioni linguistiche rientrino in modo coerente nelle note carcerarie dell’autore; tale prospettiva di interpretazione dei Quaderni non è, come afferma lo studioso, mai stata affrontata in precedenza, nonostante vi siano numerose testimonianze e documenti che provano l’enorme importanza che i fatti linguistici ebbero per il giovane Gramsci e continuarono ad avere per il Gramsci dei Quaderni.
L’interesse di Gramsci per la lingua comincia a farsi strada intorno al 1911, anno in cui il filosofo si iscrive alla Facoltà di Lettere dell’Università di Torino, diventando subito un assiduo frequentatore delle lezioni di glottologia del professore Matteo Bartoli. Fin dal principio l’interesse gramsciano per la linguistica va a mescolarsi con la sua passione per l’analisi della società, delle dinamiche politiche e della storia; da questo momento in poi l’autore, che doveva essere, almeno secondo il professor Bartoli, “l’arcangelo destinato a profligare definitivamente i neogrammatici”, non abbandonerà mai il suo amore per gli studi linguistici, tanto che essi rientrano nel programma di lavoro steso nella lettera alla cognata Tania del 19 marzo 1927 e nello schema scritto l’8 febbraio 1929 nella prima pagina del primo Quaderno, dove leggiamo che due degli argomenti principali a cui Gramsci intende dedicarsi durante la sua detenzione sono di carattere prettamente linguistico: 1) la questione della lingua in Italia: Manzoni e Ascoli; 2) Neogrammatici e neolinguisti. Inoltre, nella trattazione di almeno altri cinque ‘argomenti principali’ le considerazioni linguistiche svolgeranno un ruolo fondamentale: 1) sviluppo della borghesia italiana fino al 1870; 2) formazione dei gruppi intellettuali italiani: svolgimento e atteggiamenti; 3) la letteratura popolare dei romanzi d’appendice e le ragioni della sua persistente fortuna; 4) il concetto di folklore; 5) il senso comune. Dunque gli studi di linguistica non furono solo una passione o una stravaganza giovanile passeggera: essi lasciarono invece profondi segni. In varie annotazioni biografiche e nella lettera alla cognata in cui Gramsci afferma di avvertire la necessità di scrivere qualcosa che sia fur ewig il filosofo riconosce esplicitamente l’iniziale matrice linguistica dei suoi interessi e delle sue ricerche sull’organizzazione della cultura italiana, sulla funzione cosmopolita che hanno avuto gli intellettuali italiani e sulla quasi costante separazione nella storia della società italiana tra popolo e intellettuali. Per comprendere al meglio la posizione di Gramsci rispetto alla lingua e in particolare rispetto al problema della creazione e diffusione di una lingua unitaria nazionale per tutta l’Italia è necessario inserire e contestualizzare il pensiero gramsciano nel dibattito che si teneva all’epoca e alcuni anni prima rispetto al periodo della formazione intellettuale di Gramsci in merito a questo tema. Sul questa questione nazionale vari studiosi si erano espressi, ma di particolare rilievo risultano essere le opinioni di Alessandro Manzoni e di Graziadio Isaia Ascoli, gli intellettuali con i quali Gramsci si confronterà maggiormente all’interno dei suoi Quaderni.

La posizione di Alessandro Manzoni

I motivi predominanti dell’interesse di Manzoni per la questione della lingua si trovano già chiaramente formulati in una lettera del 1806 inviata al filologo francese Claude Fauriel: in questa l’autore afferma che la divisione dell’Italia, la pigrizia e l’ignoranza hanno portato alla creazione di una grande scissione tra lingua parlata e scritta e che quest’ultima si presenta oramai come una lingua morta. Di conseguenza, è impossibile per gli intellettuali portare a termine il loro obiettivo di erudire la moltitudine, di farle apprezzare il bello. La lingua, già in questa lettera giovanile, non è vista come un oggetto di valutazioni estetico-letterarie, ma come strumento di comunicazione sociale e, in particolare, come strumento e condizione dell’efficacia sociale dell’intellettuale. Manzoni torna ad esprimersi in merito alla questione linguistica nel momento in cui il ministro della Pubblica istruzione Broglio gli affida l’incarico di compilare una relazione sul tema dell’unità della lingua e sui mezzi per diffonderla. Proprio in questo intervento ufficiale della maturità il problema si preciserà ancora meglio: la condizione minima e necessaria perché l’intellettuale possa coi propri libri raggiungere il maggior numero possibile di lettori e portare così il proprio contributo allo sviluppo sociale e culturale di una nazione è, per Manzoni, che vi sia un linguaggio comune a tutta la penisola. Tal convinzione è assunta sulla scia dell’idea secondo cui ogni qual volta che si è venuta a creare una separazione tra una lingua degli intellettuali e una lingua parlata da persone comuni si è sempre avuta una società incolta e una letteratura morta. Così, anche in Italia, la mancanza di una lingua nazionale accettata e usata quotidianamente da tutti è la causa fondamentale del chiudersi degli intellettuali in una casta isolata dal resto della società e della conseguenze creazione di una cultura alte ed élitaria separata dal popolo. E la grande distanza tra la lingua quotidianamente ed effettivamente usata e l’italiano ufficiale restringe non solo il numero dei potenziali lettori ma anche quello dei potenziali autori e degli argomenti da trattare. Per Manzoni, per risolvere il problema dell’unità linguista dell’Italia, è necessario diffondere in tutta la penisola un idioma che sia vivo, un idioma d’uso; la lingua italiana da proporre da modello agli italiani deve essere una lingua fatta.
La teoria linguistica di Manzoni è racchiusa in tre assiomi: il punto di partenza del ragionamento di Manzoni è che esiste una molteciplità di mezzi di comunicazione, nessuno dei quali si può dire sia usato uniformemente da tutti gli italiani. Dal momento che tutti gli idiomi, fiorentino compreso, usati sul territorio nazionale linguisticamente e socialmente si equivalgono e che ogni singolo idioma è un naturale mezzo di comunicazione, il processo di unificazione linguistica non può configurarsi che come un processo di sostituzione di diversi mezzi di comunicazione con un solo mezzo che sia accettato da tutti: una lingua comune. E dato che, in passato, l’unica lingua che ha funto da elemento unificante è stata quella fiorentina, è proprio a questa che Manzoni pensa.
In accordo con la proposta manzoniana, l’intellettuale viene chiamato a svolgere un ruolo non di produttore della cultura e di una lingua ma come suo utente e diffusore. Così il ruolo dell’intellettuale è assimilabile a quello di un semplice funzionario di Stato.

La posizione di Ascoli
L’altro grande critico del problema dell’unificazione linguistica della penisola a cui senz’altro Gramsci fa riferimento è Graziadio Isaia Ascoli e in particolare al suo scritto, il Proemio all’Archivio Glottologico Italiano. La tesi centrale, altamente anti-manzoniana, intorno a cui ruotano le analisi e le indicazioni del Proemio coincide con quella di Gramsci: le vicende linguistiche di una nazione, non solo non sono separabili, ma anzi sono il risultato delle contemporanee vicende, politiche sociali e culturali, che si svolgono al suo interno. La mancata unificazione linguistica dell’Italia, di conseguenza, non può essere considerata una causa ma un effetto della separazione tra lingua intellettuale e lingua popolare. Per raggiungere una reale e duratura unificazione linguistica, pertanto, non bisogna tanto intervenire sul comportamento verbale degli italiani ma sulle cause non linguistiche del fenomeno; è perciò necessario creare le condizioni per l’unificazione culturale e civile degli italiani, da cui poi discenderà spontaneamente l’unificazione linguistica. Secondo Ascoli, nella storia linguistica di una comunità, l’intellettuale svolge un ruolo non come singolo ma come massa e come apparato. In Italia la cultura non ha apportato alla unificazione linguistica gli stessi contributi che in Francia e in Germania non perché non vi siano grandi intellettuali italiani ma perché è mancata una diffusa intellettualità media: ‘scarsa densità della cultura’ e ‘sapere concentrato nei pochi’ sono le immagini con cui Ascoli raffigura la situazione italiana. Questa definizione del ruolo degli intellettuali anticipa il concetto gramsciano di intellettuale collettivo. Il lavoro intellettuale può avere efficacia sociale e linguistica solo se la sua densità non è scarsa, ossia se il sapere non è concentrato nei pochi. In fatto di lingua e di cultura nazionale, “il mediocre è sempre quello che più importa e decide, perché i grandi fanno sempre bene dappertutto, qual pur sia lo strumento che è dato loro”. La scarsa densità del sapere e la mancanze di una classe di intellettuali è una causa e un effetto di quella che nei Quaderni sarà chiamata la natura cosmopolita e non nazionale dei grandi intellettuali italiani: gli intellettuali italiani – scrive Ascoli percorrendo Gramsci – hanno cresciuto e guidato non legioni paesane ma legioni straniere. È evidente la somiglianza tra la figura dell’intellettuale tratteggiata nel Proemio e quella teorizzata e studiata nei Quaderni. Ma non è soltanto nei Quaderni che si fa riferimento a questo aspetto specifico: annotazioni a riguardo si trovano anche in alcuni articoli degli anni giovanili e nel saggio sulla questione meridionale. In quest’ultimo, l’Italia è presentata come una grande disgregazione sociale, disgregazione che coinvolge contadini ma anche intellettuali: al sud, infatti, secondo Gramsci, non esiste una cultura media, non vi sono riviste di livello medio, non esistono case editrici intorno a cui si raggruppino formazioni medie di intellettuali meridionali.
Per Ascoli poi, questo intellettuale collettivo non svolge il semplice ruolo di veicolo e utente di una lingua già fatta ma è, anzi, produttore di una lingua e di una cultura. Egli ritiene che una lingua nazionale non è data ma è creata e continuamente sorretta e legittimata dal lavoro collettivo dell’intelligenza nazionale.
Dunque anche per Ascoli, come per Manzoni, nel processo di unificazione linguistica di una nazione un posto preminente spetta agli intellettuali: il modo in cui essi svolgono la loro funzione nei due progetti di politica linguistica è però radicalmente diverso: l’intellettuale manzoniano è un funzionario dello Stato ed esercita, perciò, una autorità linguistica in quanto fa leva sulla forza dello Stato; l’intellettuale ascoliano trae la propria autorità linguistica soltanto dal proprio lavoro produttivo. L’intellettuale ascoliano produce, legittima ed irradia la lingua e la cultura. E quest’idea verrà assunta anche da Gramsci, che in un articolo del 1918 polemizza contro quei socialisti che, in nome di un internazionalismo astratto e antistorico, pensavano di ottenere l’unificazione linguistica delle diverse classi operaie nazionale mediante l’apprendimento di una lingua artificiale, e perciò a-nazionale, come l’esperanto.
Gramsci però, rispetto ad Ascoli, sottolinea anche l’importanza della produzione di merci, oltre che di libri, per la legittimazione e diffusione della lingua.
Da un punto di vista più prettamente pratico, Ascoli contrasta l’idea di Manzoni di diffondere il fiorentino a tutta Italia, qualificando negativamente l’omogeneità linguistica di Firenze e le argomentazioni con cui respinge questo aspetto del modello fiorentino vanno molto oltre la sola questione della lingua. Il rapporto organico intellettuali-popolo – è il senso delle analisi del Proemio – nella Firenze del ‘500 è ottenuto a spese della produzione intellettuale: popolo e intellettuali parlano e pensano allo stesso modo perché entrambi si nutrono di una medesima cultura rarefatta e stagnante. Secondo Ascoli, e poi secondo Gramsci, invece il contatto tra intellettuali e semplici non deve realizzarsi per limitare l’attività scientifica ma piuttosto per costruire un blocco intellettuale-morale che renda politicamente possibile un progresso intellettuale di massa e non solo di ristretti ed élitari gruppi intellettuali (q. 11).
La questione della lingua: neogrammatici e neolinguisti

Fin dall’inizio dei suoi studi di glottologia, Gramsci è indicato dal suo professore come ‘l’arcangelo destinato a profligare definitivamente i neogrammatici’. E Gramsci tiene fede a questo impegno, a questa aspettativa del suo professore ponendo tra i sedici argomenti principali di cui pensa di occuparsi in carcere anche uno riguardante ‘neogrammatici e neolinguisti’. Per comprendere la posizione assunta da Gramsci in merito alla questione è necessario ricostruire a grandi linee il dibattito teorico della glottologia italiana nei primi decenni del ‘900 e l’ottica bartoliana attraverso cui lo studente Gramsci l’ha osservato. La contrapposizione delle due scuole dei neogrammatici e dei neolinguisti nasce ufficialmente con l’articolo di Bartoli ‘Alle fonti del neolatino’ pubblicato nel 1910: è qui che compaiono per la prima volta il termine ‘neolinguistica’ e alcuni dei concetti che saranno sviluppati in lavori posteriori. Il dibattito assume fin da subito toni molto accesi ed il neogrammatico Clemente Merlo parlerà, nel 1911, dell’articolo di Bartoli in questi termini: “tristi pagine! Dove la scuola dei neogrammatici, la scuola di tanti illustri di ogni paese, è battezzata ripetutamente e in modo irriverente la ‘scuola vecchia’; dove, in forma confusa e con novità di linguaggio che addolora e meraviglia, si enuncia un nuovo verbo, il verbo della scuola dei neo-linguisti”. Nel 1925 poi Bartoli pubblica un Breviario di neolinguistica, scritto in collaborazione con Bertoni, concepito come il manifesto del nuovo indirizzo linguistico, formato da una parte teorica e da una parte metodologica. I neolinguisti polemizzano in particolare con i neogrammatici italiani del ‘900 che furono molto lontani dalla vivacità e dagli interessi culturali dei loro predecessori tedeschi: essi rifiutarono sempre di occuparsi di ogni questione che riguardasse problemi teorici generali; quando si occuparono di teoria linguistica lo fecero quasi sempre loro malgrado e più per criticare le tesi degli avversari che per proporre una nozione o di un problema teorico o metodologico nuovo. I neolinguisti al contrario furono molto sensibili ai problemi di teoria generale e allo studio delle relazioni tra il linguaggio e gli altri tipi di attività umana: anche da ciò dipese il loro essere di molto superiori ai neogrammatici in fatto di aggiornamento culturale e di varietà di interessi. All’interno del gruppo dei neolinguisti si distanzia almeno in parte per sobrietà teorica e per alcune divagazioni genti liane lo studioso Giulio Bertoni, che sarà definito da Gramsci come una persona ‘ripugnante intellettualmente’.
In Bartoli non si trova una vera e propria teoria linguistica ma una serie di indicazioni metodologiche su come ricostruire, in mancanza di sufficiente documentazione storia, la cronologia e i centri di irradiazione e di espansione delle forme linguistiche. La dottrina teorica di Bartoli, più che una completa e coerente filosofia del linguaggio, volle essere e fu un insieme di norme tecniche di portata generale: le norme areali e spaziali costituiscono il fulcro e la sostanza della teoria generale del Bartoli. Ma le norme areali non sono ancora una teoria linguistica e, da sole, non sono sufficienti per ricostruire la storia di una lingua. Di ciò Bartoli ha piena consapevolezza fino alla fine della propria attività scientifica: le norme spaziali sono soltanto un mezzo per trovare il rapporto cronologico tra due o più fasi linguistiche. Ed è proprio la consapevolezza del sostanziale carattere metodologico e ancora pre-teorico della propria pratica scientifica e la conseguente esigenza di una sua legittimazione teorica a spiegare il perché il professor Bartoli abbia conferito a Gramsci l’incarico di elaborare una nuova teoria linguistica anti-neogrammaticale.
Tornando al dibattito tra neogrammatici e neolinguisti, il concetto intorno al quale le due fazioni si confrontavano era quello di ‘sostrato’. Il concetto di sostrato in linguista storica è usato per spiegare i cambiamenti linguistici e soprattutto il sorgere di nuovi idiomi non mediante evoluzioni interne e spontanee ma per contatto con altre lingue. In questo senso, la linguistica si impegna nello studio dei differenti esiti storici cui un medesimo idioma perviene contemporaneamente in luoghi diversi. Da Ascoli in poi si chiama ‘lingua di sostrato’ la lingua nativa del popolo che, in un dato momento della propria storia, viene ad adottare la lingua di un altro gruppo sociale e ‘azione di sostrato’ l’influsso che la lingua nativa fa sentire sulle strutture fonologiche, morfologiche e sintattiche della lingua adottata. Dalla teoria ascoliana del sostrato si possono estrarre tre concetti storico-sociologici utilizzabili anche fuori dall’ambito linguistico:
1)    Ascoli concepisce lo sviluppo linguistico in relazione a un fenomeno sociale e non come causa di se stesso. La storia delle lingue viene cioè ad essere vista come una parte della storia globale, politica e socio-culturale, dei popoli che le parlano: naturalmente non sono solo le lingue a venire a contatto ma anche le culture e le istituzioni veicolate da quelle lingue.
2)    I contatti linguistici non risultano essere mai pacifici ma anzi si presentano come dei conflitti alla fine dei quali ci sono sempre una lingua e una cultura che perdono e che perciò sono dominate (lingua e cultura di sostrato) e una lingua e una cultura che vincono e dominano (lingua e cultura adottate). Perché vi sia ‘azione di sostrato’ è però necessario che l’adozione della lingua e della cultura vincenti non comporti una radicale sostituzione e/o distruzione della lingua e della cultura perdenti. L’esito del conflitto deve essere la formazione di un blocco linguistico composito in cui elementi della lingua dominante ed elementi della lingua dominata vengono ad influenzarsi reciprocamente. Quindi di norma nessuna lingua di sostituisce integralmente ad un’altra.
3)    Ascoli sembra non riuscire mai a raggiungere uno stadio storico che non sia già il risultato di incrociamenti e di mescolanze etniche e linguistiche.
A questa spiegazione storico-sociologica del concetto di sostrato, Ascoli aggiunge anche una spiegazione naturalistica: nelle sue Lettere glottologiche lo studioso afferma che alcune variazioni linguistiche dipendono da determinate predisposizioni orali dei parlanti; sostanzialmente Ascoli intende dire che determinati suoni sono modificati a causa della conformazione specifica dell’apparato fonatorio di una comunità.
Naturalmente, le due spiegazioni dell’innovazione per effetto di sostrato, se adeguatamente sviluppate, si rivelano facilmente tra di loro contraddittorie. La prima, soprattutto se combinata con le elaborate analisi sociolinguistiche del Proemio, porta ad accentuare l’importanza dei rapporti di forza culturali, oltre che politici ed economici, nei processi di cambiamento linguistico. La seconda, per essere coerentemente mantenuta, esige che si arrivi a concepire l’abitudine orale come un carattere permanente, connesso con la struttura anatomica, con al conformazione glottica di una data stirpe. La linguistica italiana dei primi decenni del ‘900 è percorsa dallo sviluppo indipendente delle due anime ascoliane: l’anima naturalistica e biologistica rappresentata dai neogrammatici e l’anima culturalistica e socio logistica rappresentata dai neolinguisti.
Se per Ascoli la linguistica fu contemporaneamente scienza naturale e scienza storica, per i neogrammatici post-ascoliani la linguistica si converte solo ed esclusivamente in scienza naturale. Per questi studiosi, dunque, le cause dei mutamenti diacronici delle lingue vanno di conseguenza cercate non tanto nelle complesse vicende storiche dei parlanti ma nei meccanismi fisiologici della glottide umana. Le lingue sono trasmesse o da generazione a generazione o da popolo a popolo. In entrambi i casi una lingua subisce dei mutamenti “perché l’apprendimento e la riproduzione da parte degli allogeni e dei bambini avviene per mezzo dell’orecchio e degli organi della parola ed è da tutti constatabile che tali organi non sono perfetti”. Le alterazioni foniche dipendono dall’imperfetto funzionamento dell’organo dell’udito e dell’apparato orale: esse sono pertanto fatali. La loro fatalità e regolarità discende dal fatto che ogni razza umana possiede una congenita capacità uditiva e articolatoria. Secondo gli studi condotti in merito alla questione, vi sono alcuni apparati fonico-acustici migliori e razze con apparati fonico-acustici peggiori. Naturalmente, al vertice della gerarchia non può che trovarsi la razza italica, la cui lingua italiana è una perfetta e limpida continuazione di quella lingua pura che è il latino. Ma anche tra i componenti di una medesima razza di trovano strati bassi di popolazione che, avendo maggiori difetti fisici, sono più responsabili degli altri nella produzione delle ‘ruine foniche’.
Contemporaneamente a Bartoli, la stessa polemica anti-fisiologica veniva condotta in Francia da Gillieron, il primo dei tre principali ispiratori della neolinguistica. Secondo questo studioso, a causa della loro genesi spirituale e non fisiologica i cambiamenti linguistici non sono compatibili con la regolarità e rigidità delle leggi fonetiche. La neolinguistica, come afferma Gillieron, vede delle trasgressioni alle leggi fonetiche, nella consapevolezza che i linguaggi scorrono, da un’area all’altra, senza confini, senza barriere di nessun genere. Quando Gramsci dovrà polemizzare coi compagni esperantisti, si servirà degli stessi argomenti con cui il professor Bartoli critica la meccanicità e rigidità delle leggi foniche dei colleghi neogrammatici. Ma la lotta contro i puristi e gli esperantisti è solo una piccola parte della più vasta lotta contro ogni forma di irrigidimento e di meccanizzazione della vita in divenire e del dinamismo sociale: “io sono un rivoluzionario, uno storicista, e affermo che sono utili e razionali solo quelle forme di attività sociale (linguistiche, economiche, politiche) che spontaneamente sorgono e si realizzano per l’attività delle energie sociali libere”; “il proletariato nasce come protesta del divenire storico contro ogni irrigidimento e ogni impaludamento del dinamismo sociale”.

La posizione di Gramsci
La posizione di Gramsci in merito alla questione linguistica italiana affonda sicuramente le sue radici nelle spiegazioni e riflessioni proposte dal professor Bartoli durante le sue lezioni di glottologia. Proprio in queste occasioni Gramsci raccoglie una serie di appunti nei quali si torna ripetutamente sul problema ampiamente trattato da Ascoli nel Proemio e nelle Lettere glottologiche: le condizioni minime che consentono ad una innovazione linguistica di diffondersi in aree geografiche e/o sociali ad essa estranee. Le spiegazioni di Bartoli, a differenza di quelle dei neogrammatici italiani, rimandano ad una dimensione socio-culturale: perché un’innovazione neolatina possa nascere e diffondersi è necessario che nel luogo di origine esistano due condizioni: 1) un linguaggio preromano che sia somigliante al latino; 2) una civiltà che abbia una vita tanto intensa da servire, con il suo espandersi, da mezzo di trasmissione dell’innovazione linguistica.
Perché una lingua possa diffondersi oltre i propri confini originari non è sufficiente che il popolo parlante quell’idioma conquisti da un punto di vista politico un altro popolo, ma condizione necessaria è che vi sia un’imitazione spontanea della lingua da parte del popolo conquistato. L’adesione spontanea (consenso linguistico) si ottiene però solo se la lingua da adottare è mezzo di espressione di un popolo che esercita un certo fascino sulla comunità conquistata, fascino dovuto ad una superiorità spirituale. Questo fascino è innanzitutto una qualità culturale, tant’è che i centri di irradiazione linguistica coincidono sempre coi centri di irradiazione culturale. Con il concetto di fascino (che per Gramsci sarà ‘prestigio’, termine ripreso dallo studioso francese Antoine Meillet) si spiegano non solo i mutamenti che avvengono nelle parlate non prestigiose ma anche quelli che si riscontrano nelle parlate che si auto percepiscono come più prestigiose: un popolo con una forte consapevolezza della propria identità e della sua personale superiorità culturale, è portato ad eliminare dalla propria lingua tutte le caratteristiche che la rendono simile alle lingue dei popoli che lo circondano e che sono giudicati come inferiori. In ogni caso, le culture e le lingue si diffondono sulla scia di una necessità avvertita spontaneamente da una comunità, in rispondenza ai nuovi bisogni intellettuali che storicamente si vanno formando. E dunque, se una lingua si espande con la collaborazione ed il consenso spontaneo dei gruppi sociali culturalmente e linguisticamente perdenti, ciò che è mancato in Italia (secondo quanto afferma Ascoli e poi Gramsci) è “un gruppo sociale e un centro geografico la cui parlata e cultura potessero essere prese come modello dell’intera nazione”. Nei Quaderni lo stesso pensiero sarà tradotto nel concetto di egemonia.
Dal prestigio all’egemonia Gli elementi di linguistica teorica estraibili dai Quaderni sono una continuazione e un approfondimento delle teorie socio-culturali e geografiche di Ascoli, Gillieron, Meillet e Bartoli. Anche per Gramsci “i linguisti, che sono essenzialmente storici, precisamente studiano le lingue in quanto non sono arte, ma materiale dell’arte, in quanto prodotto sociale, in quanto espressione culturale di un dato popolo”. La storia di una lingua è perciò parte della storia delle innovazioni socio-culturali del popolo che la parla: “la storia delle lingue è storia delle innovazioni linguistiche, ma queste innovazioni non sono individuali ma sono di un’intera comunità sociale che ha innovato la sua cultura, che ha progredito storicamente: naturalmente anch’esse diventano individuali, ma non dell’individuo-artista, ma dell’individuo-elemento storico culturale complemento determinato”. I processi e i meccanismi della storia e del mutamento linguistico a loro volta sono pensati senza ombra di dubbio all’interno di una teoria culturalistica del sostrato: “anche nella lingua non c’è partenogenesi, cioè la lingua che produce altra lingua, ma c’è innovazione per interferenze di culture diverse”. Ma nel pensiero di Gramsci, la grande novità di rilievo rispetto ad Ascoli, Gillieron, Meillet e Bartoli è l’introduzione del concetto di egemonia. I rapporti di forza tra le culture che, venendo a contatto, producono innovazioni linguistiche non sono pensati col concetto di prestigio ma, appunto, con quello di egemonia: “Il linguaggio di trasforma col trasformarsi di tutta la civiltà, per l’affiorare di nuove classi alla cultura, per l’egemonia esercitata da una lingua nazionale sulle altre”. A parte il termine egemonia, il significato delle parole di Gramsci, il concetto che egli esprime è praticamente lo stesso rispetto ai suoi precursori. La trasformazione del concetto di sostrato-prestigio in quello di egemonia non è un fatto automatico e lineare ma è il risultato di un lungo e tortuoso processo di pensiero. Negli articoli linguistici giovanili non compare né il termine prestigio né quello di egemonia; prestigio ed egemonia compaiono invece negli articoli di analisi politica scritti prima del carcere. È impossibile spiegare i motivi di questa tortuosità e della scelta finale del termine egemonia con un significato affine a quello di prestigio. Un ruolo fondamentale avrà indubbiamente giocato l’incontro con la tradizione, anche terminologica, del marxismo sovietico con cui Gramsci viene a contatto a partire dagli anni ’18-20.
Gli scritti linguistici giovanili Quando sulle colonne dell’Avanti! e del Grido del popolo il giovane Gramsci spiegherà ai suoi compagni esperantisti come nasce e si diffonde una lingua comune, nazionale o internazionale, si servirà degli stessi concetti di Ascoli, Gillieron, Meillet e Bartoli. Problematica ascoliana del sostrato, sua ritraduzione nel concetto di fascino-prestigio, analisi e soluzione ascoliana alla questione della lingua, concezione burocratica e statalistica del lavoro intellettuale nella soluzione manzoniana sono tutti elementi facilmente visibili in questi interventi giovanili sull’esperanto che possono essere considerati una summa delle conoscenze glottologiche dello studente Gramsci. Le due lettere e i due articoli sull’esperanto di articolano su due argomenti:
1)    La costruzione artificiale di una lingua internazionale comune a tutti i popoli è un grande errore perché presuppone una totale ignoranza del modo in cui nasce, si diffonde e vive una lingua storico naturale. Gli esperantisti non sanno che “la lingua non è solo mezzo di comunicazione: è prima di tutto arte, è bellezza, e che tale sia anche per i più umili strati sociali si vede dal riso che suscita chi non si esprime bene in una lingua o in un dialetto che gli è estraneo abitualmente”: essi vorrebbero suscitare artificialmente una lingua irrigidita, che non soffra cambiamenti nello spazio e nel tempo.
2)    I concetti del Proemio, le problematiche del sostrato-fascino-prestigio sono usati per spiegare a quali condizioni potrebbe nascere una lingua unica internazionale. Come la lingua nazionale unitaria non può che essere il risultato spontaneo dell’effettiva unificazione sociale e culturale dell’Italia, allo stesso modo può nascere una lingua unica per un gruppo di nazione. Ma allora anche in questo caso bisogna seguire il suggerimento di Ascoli: si deve intervenire sulla cause e non sugli effetti. I compagni esperantisti invece vorrebbero arbitrariamente suscitare delle conseguenze, che non hanno ancora le necessarie condizioni. La soluzione è in questo caso individuata da Gramsci nel socialismo: solo impegnandosi per l’avvento dell’Internazionale i socialisti lavoreranno per l’avvento possibile della lingua unica. I socialisti lottano perché siano suscitate le condizioni economiche e politiche per l’avvento del collettivismo e dell’Internazionale. Quando l’Internazionale sarà divenuta una realtà effettiva, è probabile che i contatti maggiori tra popolo e popolo, le immigrazioni regolari e metodiche di grandi masse lavoratrici, portino lentamente a un conguagliamento delle lingue ario-europee, e probabilmente alla diffusione di esse in tutto il mondo, per la suggestione che la nuova civiltà eserciterà sul mondo. Ma questo processo può solo avvenire liberamente e spontaneamente. Le spinte linguistiche avvengono solo dal basso in alto; i libri poco influiscono sul cambiamento delle parlate e solo lavorando per l’avvento dell’Internazionale i socialisti lavoreranno per l’avvento possibile della lingua unica. La lingua internazionale creata artificialmente prima che esista l’Internazionale, prima che i traffici e la vita politica siano stati regolati in modo stabile con criteri di utilità internazionale, prima che siano stati suscitati dei contatti così profondi e continui tra le varie parti del mondo, che una variazione del linguaggio si diffonda rapidamente in tutta la sua estensione, si ridurrebbe a un gergo convenzionale di poche categorie, di un élite.
Gli interventi linguistici giovanili sono costruiti sull’opposizione di due gruppi di concetti: spontaneità-consenso-cultura-storicità da una parte e imposizione-costruzione artificiale-non storicità dall’altra. Ascoli rappresenta il primo gruppo, Manzoni il secondo. Ciascuno dei due gruppi concettuali contiene una teoria implicita degli intellettuali: nelle proposte linguistiche di Manzoni e degli esperantisti, l’intellettuale viene ad assumere i caratteri del funzionario di Stato; nella proposta ascoliana, l’intellettuale lavora all’interno di organizzazioni private e trae autorità-prestigio esclusivamente dalla propria energia operosa, cioè dalla propria autonoma capacità di produrre consenso.
La storia di una lingua si configura perciò come storia delle capacità di egemonia dei suoi intellettuali e dei gruppi sociali da essi rappresentati. I mutamenti linguistici e le inevitabili discussioni teoriche che li accompagnano, sono sempre sintomi ed effetti di spostamenti e riorganizzazioni dei centri di irradiazione del prestigio-egemonia e di mutamenti dei rapporti di forza culturali o tra le nazioni-popolo o tra i componenti di una medesima nazione-popolo: “ogni volta che affiora, in un modo o nell’altro, la questione della lingua, significa che si sta imponendo una serie di altri problemi: la formazione e l’allargamento della classe dirigente, la necessità di stabilire rapporti più intimi e sicuri tra i gruppi dirigenti e la massa popolare-nazionale, cioè di riorganizzare l’egemonia culturale” (q. 29).
Il confronto con la Francia Sul tema della formazione in Italia di una lingua nazionale, nei Quaderni si svolge un continuo confronto con la storia francese. La Francia è molto spesso, come lo fu già per Manzoni e Ascoli, il paradigma rispetto a cui viene esaminata la storia italiana. Agli occhi di Gramsci la Francia è il paese in cui, a differenza che in Italia, la borghesia nasce, se non già nazional-popolare, almeno con spiccate tendenze nazional-popolari: in essa, anche in tempi lontani come quelli dell’assolutismo monarchico, “la borghesia è unita al popolo e ai contadini e in tempi più recenti come durante la Rivoluzione, si vede agire la borghesia come il gruppo egemone di tutte le forze popolari”. I suoi intellettuali a loro volta “tendono più che altrove per determinate condizioni tradizionali, ad avvicinarsi al popolo per guidarlo ideologicamente e tenerlo collegato al gruppo dirigente”. Dunque il protagonista della storia francese è il popolo-nazione; quindi un tipo di nazionalismo politico e culturale che sfugge ai limiti dei partiti propriamente nazionalistici e che impregna tutta la cultura, quindi una dipendenza e un collegamento stretto tra popolo nazione ed intellettuali. Al contrario in Italia il popolo nazione è il grande assente della nostra storia moderna e contemporanea. Scrive Gramsci nel q. 25: “La borghesia italiana non seppe unificare intorno a sé il popolo e questa fu la causa delle sue sconfitte e delle interruzioni del suo sviluppo. Anche nel Risorgimento tale egoismo impedì una rivoluzione rapida e vigorosa come quella francese”. “La democrazia borghese non seppe mai crearsi una base popolare. I suoi intellettuali, di conseguenza, diversamente da quelli della borghesia francese, dovevano distinguersi dal popolo, mettersene fuori, creare tra di loro o rafforzare lo spirito di casta, e nel loro fondo diffidare del popolo, sentirlo estraneo, averne paura, perché in realtà era qualcosa di sconosciuto”.
Le storie linguistiche della Francia e dell’Italia sono inscritte nei differenti processi di formazione delle rispettive borghesie. Già nel Medioevo, borghesia francese e borghesia italiana nascono con vocazioni linguistiche e politiche antitetiche, nazional-popolare la prima, corporativa la seconda. L’origine della differenziazione storica tra Italia e Francia si può trovare testimoniata nel giuramento di Strarburgo (841) cioè nel fatto che il popolo (o meglio il popolo-esercito) partecipa attivamente alla storia diventando il garante dell’osservanza dei trattati tra i discendenti di Carlo Magno; il popolo-esercito garantisce ‘giurando in volgare’,  cioè introduce nella storia nazionale la sua lingua, assumendo una funzione politica di primo piano, presentandosi come volontà collettiva, come elemento di una democrazia nazionale. Questo fatto ‘demagogico’ dei Carolingi di appellarsi al popolo nella loro politica estera è molto significativo per comprendere lo sviluppo della storia francese e la funzione che vi ebbe la monarchia come fattore nazionale. In Italia i primi documenti di volgare sono dei giuramenti individuali per fissare la proprietà su certe terre dei conventi, o hanno un carattere antipopolare. L’involucro monarchico, vero continuatore dell’unità statale romana, permise alla borghesia francese di svilupparsi più che la completa autonomia economica raggiunta dalla borghesia italiana, che però fu incapace di uscire dal terreno grettamente corporativo e di crearsi una propria civiltà statale integrale. La coscienza nazionale si costituì dal superamento di due forme culturali: il particolarismo municipale e il cosmopolitismo cattolico, che erano in stretta connessione tra loro e costituivano la forma più caratteristica di residuo medievale e feudale”. Corporativismo economico e/o campanilistico, cosmopolitismo, assenza o insufficiente presenza della dimensione nazional-statale sono, secondo Gramsci, una costante della storia d’Italia che bisogna far risalire alla particolare natura della borghesia medievale: “la borghesia italiana medievale non seppe uscire dalla fase corporativa per entrare in quella politica perché non seppe completamente liberarsi dalla concezione medievale-cosmopolitica rappresentata dal Papa, dal clero e anche dagli intellettuali laici (umanisti), cioè non seppe creare una Stato autonomo, ma rimase nella cornice medievale, feudale e cosmopolita” (q. 5). “Bisogna fissare che significato ha avuto lo Stato nello Stato comunale: un significato corporativo limitato, per cui non si è potuto sviluppare oltre il feudalismo medio, cioè quello successo al feudalismo assoluto, esistito fino al Mille e a cui successe la monarchia assoluta nel secolo XV, fino alla Rivoluzione francese. Un passaggio organico dal comune ad un regime non più feudale si ebbe nei Paesi Bassi e solo in essi. In Italia i comuni non seppero uscire dalla fase corporativa, l’anarchia feudale ebbe il sopravvento in forme appropriate alla nuova situazione e ci fu poi la dominazione straniera. Ecco il problema che deve essere collegato con quello degli intellettuali: i nuclei borghesi italiani, di carattere comunale, furono in grado di elaborare una propria categoria di intellettuali immediati, ma non di assimilare le categorie tradizionali di intellettuali (specialmente il clero) che invece mantennero e accrebbero il loro carattere cosmopolitico. Mentre i gruppi borghesi non italiani, attraverso lo Stato assoluto, ottennero questo scopo molto facilmente poiché assorbirono gli stessi intellettuali italiani”.
Dunque alla borghesia medievale e rinascimentale mancò anzitutto la dimensione nazional-territoriale: “la prima borghesia italiana [dei Comuni] fu disgregatrice dell’unità esistente, senza sapere o poter sostituire una nuova propria unità: il problema dell’unità territoriale, non fu neanche posto o sospettato”. La mancanza di interessi nazional-territoriali e statali è la conseguenza del corporativismo economico e/o campanilistico.
Un gruppo sociale passa dalla fase economico-corporativa alla fase etico-politica o egemonica quando raggiunge la coscienza che i propri interessi corporativi, nel loro sviluppo attuale e avvenire, superano la cerchia corporativa, di gruppo meramente economico, e possono e debbono divenire gli interessi di altri gruppi subordinati. Questa è la fase più prettamente politica, che segna il passaggio dalla struttura alla sfera delle superstrutture complesse, è la fase in cui le ideologie concepite embrionalmente nel periodo precedente diventano ‘partito’, vengono a confronto ed entrano in lotta fino a che una sola di esse o almeno una combinazione di esse, tende a prevalere, a diffondersi su tutta l’area sociale, determinando oltre che l’unicità dei fini economici e politici, anche l’unità intellettuale e morale, ponendo tutte le questioni intorno a cui ferve la lotta non sul piano corporativo ma su un piano universale e creando così l’egemonia di un gruppo sociale fondamentale su una serie di gruppi subordinati.
Ad una borghesia che permanentemente oscilla tra corporativismo economico-municipale e cosmopolitismo cattolico senza mai approdare alla dimensione nazionale-statale, sul piano linguistico corrisponde una borghesia che parla e scrive o in uno dei tanti volgari locali o in latino oppure in una lingua potenzialmente nazionale ma di fatto poco comprensibile ma non solo all’intero popolo-nazione ma anche a tutte le borghesia municipali non toscane esistenti sul territorio nazionale. Il pubblico dei suoi intellettuali organici ha o gli angusti orizzonti del campanile o quelli troppo vasti dell’Europa cristiana, ma solo raramente e debolmente quelli del popolo-nazione. In questa prima fase storica, che secondo Gramsci dura per tutto il periodo pre-risorgimentale, la dialettica linguistica non si svolge tanto tra lingua nazionale e dialetti ma tra latino, lingua cosmopolita dell’Impero e della Chiesa, e i volgari locali, nessuno dei quali, compreso il toscano, riesce a superare del tutto la fase dialettale (locale-corporativa) e diventare lingua capace di imporsi al consenso di tutta la nazione. Dopo il ‘200, insieme all’egemonia culturale di Firenze, si va formando un volgare non più locale ma potenzialmente nazionale, il cosiddetto volgare illustre. Esso è pur sempre un segno, anche se molto debole, di una prima embrionale coscienza nazionale unitaria della borghesia italiana e della formazione di un ceto intellettuale unitario. Ma il volgare illustre sarebbe potuto diventare elemento di unificazione nazionale operante in profondità, oltre la ristretta cerchia dei letterati, solo se si fosse realizzato il progetto machiavellico di fare di Firenze il centro di aggregazione di uno Stato unitario. Il fallimento dell’egemonia di Firenze fa pertanto sentire i suoi contraccolpi sulla natura del volgare illustre e sui rapporti che si andavano stabilendo tra volgari locali, latino e volgare illustre: “Che tra i volgari locali, uno, quello toscano, raggiunga una egemonia, è un fatto che occorre limitare: esso non è accompagnato da una egemonia politico-sociale, e perciò rimane confinato a un puro fatto letterario. In realtà la borghesia nascente impone i propri dialetti ma non riesce a creare una lingua nazionale: se questa nasce, è confinata ai letterati e questi vengono assorbiti dalle classi reazionarie, dalle corti, non sono letterati borghesi, ma aulici. E non avviene questo assorbimento senza contrasto. L’Umanesimo dimostra che il latino è molto forte. Un compromesso culturale, non una rivoluzione”. Il conflitto tra il latino e i volgari, e soprattutto tra il latino e il volgare illustre, nelle analisi gramsciane diventa il fondamentale criterio di valutazione delle vicende culturale dell’Umanesimo e del Rinascimento. La posta socio-culurale in gioco del conflitto è anticipata nel preumanista Petrarca ed è evidentissima nel periodo umanistico-rinascimentale: in esso “erano in lotta due concezioni del mondo: una borghese-popolare che si esprimeva nel volgare e una aristocratica-feudale che si esprimeva in latino e si richiamava all’antichità romana e questa lotta caratterizza il Rinascimento e non già la serena creazione di una cultura trionfante”. Data la natura sostanzialmente corporativa e/o cosmopolita e non nazionale della borghesia e dei suoi intellettuali, il Rinascimento doveva per forza risolversi nella Controriforma, cioè nella sconfitta della borghesia nata coi comuni e nel trionfo della romanità, ma come potere del papa sulle coscienze e come tentativo di ritorno al Sacro Romano Impero: una farsa dopo la tragedia”. Simmetricamente, il conflitto linguistico non poteva che risolversi con la vittoria del latino sul volgare. La sconfitta del volgare, dovuta anzitutto al corporativismo e cosmopolitismo degli intellettuali e dei gruppi sociali che lo parlavano e lo scrivevano, non consiste nella sua scomparsa, ma nello snaturamento della sua funzione politico-culturale. Coincide col fallimento del progetto di Machiavelli di unificare tutto il territorio nazionale sul modello degli Stati assoluti di Francia e di Spagna e sancisce linguisticamente e culturalmente “il distacco degli intellettuali dalle masse che andavano nazionalizzandosi e quindi una interruzione della formazione politico-nazionale italiana, per ritornare alla posizione del cosmopolitismo imperiale e medievale”.
Ma che cos’è questo volgare illustre? È il fiorentino elaborato dagli intellettuali della vecchia tradizione: è il fiorentino di vocabolario e anche di fonetica, ma è un latino di sintassi. D’altronde la vittoria del volgare sul latino non era facile: i dotti italiani, eccettuati i poeti e gli artisti in generale, scrivevano per l’Europa cristiana e non per l’Italia, erano una concentrazione di intellettuali cosmopoliti e non nazionali. La caduta dei Comuni e l’avvento del principato, la creazione di una casta di governo staccata del popolo, cristallizza questo volgare, allo stesso modo che si era cristallizzato il latino letterario. L’italiano è di nuovo una lingua scritta e non parlata, dei dotti e non della nazione. Ci sono in Italia due lingue dotte, il latino e l’italiano, e questo finisce con l’avere il sopravvento, e col trionfare completamente nel secolo XIX col distacco degli intellettuali laici da quelli ecclesiastici. La dialettica linguistica e socio-culturale iniziata coi Comuni medievali perdura sostanzialmente inalterata per tutto il periodo prerisorgimentale. La storia linguistica rimane fino al ‘700 dominata dalla presenza del latino. In questo secolo, Gramsci registra ancora una “lotta combattuto pro e contro lo studio del latino e specialmente l’uso di esso nelle scritture, che è la questione fondamentale dal punto di vista di un rivolgimento nell’attitudine e nei rapporti dei ceti intellettuali verso il popolo”.
‘Volgare illustre’ da Gramsci non è utilizzato nell’accezione dantesca. Collegando la formazione del volgare illustre con l’egemonia intellettuale di Firenze, Gramsci va oltre la lettera e lo spirito delle definizioni dantesche. Nei Quaderni, il volgare illustre è una lingua contemporaneamente unitaria e fiorentina. Con questo significato viene a caricarsi paradossalmente di tutti i caratteri della lingua fiorentina diventata comune di cui parla Machiavelli dell’antidantesco Discorso o Dialogo intorno alla nostra lingua, mai citato da Gramsci né nei Quaderni né negli scritti giovanili. La tesi di Machiavelli è, infatti, che il volgare illustre teorizzato da Dante non sia altro che l’idioma di Firenze e il non vederne immediatamente l’origine fiorentina si può spiegare solo come effetto dell’egemonia culturale di Firenze.
Le culture folkloriche Gli interessi folklorici del giovane Gramsci si innestano sui suoi interessi glottologici. Concettualmente, problematica folclorica e problematica linguistica si coprono con perfetto isomorfismo. Altro elemento che ci conferma che le pagine sul folklore e quelle incentrate sulla meditazione linguistica vadano lette con una certa continuità è il fatto che i quaderni in cui sono raccolte queste tematiche sono stati scritti nello stesso anno (1935).
Le note gramsciane sul folklore e sul dialetto sono costruire su una norma genericamente usata nell’ideazione degli atlanti linguistici nazionali, che afferma che le classi subalterne conservano di solito la fase più arcaica. Folklore e dialetto sono propri delle aree geografiche e/o sociali più isolate dalle culture mondiali ufficiali e rappresentano pertanto una fase arcaico-provinciale dello sviluppo intellettuale di una nazione. Il folklore bisognerebbe studiarlo come concezione del mondo di determinati strati della società, che non sono toccati dalle moderne correnti di pensiero. Il dialetto è l’idioma di chi ha una cultura folklorica.
I canali di comunicazione tra culture ufficiali e culture folcloriche sono concepiti da Gramsci pressoché a senso unico sono quasi sempre diretti dalle prime alle seconde. I loro rapporti sembrano regolati dal principio areale secondo cui “ciò che risulta vecchio in città è assolutamente attuale in campagna” (q. 24). “Il pensiero e la scienza moderna danno continuamente nuovi elementi al folklore moderno in quanto certe nozioni scientifiche e certe opinioni, avulse dal loro complesso e più o meno sfigurate, cadono continuamente nel dominio popolare e sono inserite nel mosaico della tradizione”. Della medesima uni direzionalità è fatto il rapporto tra filosofia dei filosofi e filosofia spontanea dei non filosofi, chiamata da Gramsci ‘senso comune’ o ‘folklore della filosofia’. “Ogni corrente filosofica lascia una sedimentazione di senso comune: è questo il documento della sua effettualità storica. Il senso comune non è qualcosa di irrigidito e di immobile, ma si trasforma continuamente, arricchendosi di nozioni scientifiche e di opinioni filosofiche entrate nel costume. Il senso comune è il folklore della filosofia e sta sempre di mezzo tra il folklore vero e proprio e la filosofia, la scienza, l’economia degli scienziati. Il senso comune crea il futuro folklore.
Le culture folkloriche e i dialetti non si oppongono solo a culture e a idiomi delle parti colte della società; si oppongono anche a culture nazionali e a lingua nazionale: in ogni linguaggio, anche non verbale, e in ogni cultura “c’è un grado nazionale-popolare e spesso prima di questo un grado provinciale-dialettale-folcloristico.
Se una cultura e un carattere sono qualificabili come nazionali solo quando il loro tempo storco è contemporaneo al tempo della cultura mondiale più avanzata, simmetricamente un idioma è lingua nazionale e non dialetto se può tradurre qualsiasi altra grande cultura, cioè essere espressione mondiale. “Se non sempre è possibile imparare più lingue straniere per mettersi a contatto con vite culturali diverse, occorre almeno imparare bene la lingua nazionale. Una grande cultura può tradursi nella lingua di un’altra grande cultura, cioè una grande lingua nazionale, storicamente ricca e complessa, può tradurre qualsiasi altra grande cultura, cioè essere espressione mondiale. Ma un dialetto non può fare la stessa cosa” (q. 11). La concezione del mondo che si esprime nei dialetti è infatti “più o meno ristretta e provinciale, fossilizzata, anacronistica in confronto delle grandi correnti di pensiero che dominano la storia mondiale”. Una lingua nazionale, invece, vivendo di continui interscambi con le altre lingue nazionali, è sedimento e veicolo di cultura internazionale: “non si può immaginare la lingua nazionale fuori dal quadro delle altre lingue, che influiscono per vie innumerevoli e spesso difficili da controllare su di essa” (q. 29).
Ma come eliminare il folclore, cultura delle classi subalterne che si esprimono in dialetto’
Per Gramsci la diffusione di una lingua nazionale e la collocazione in secondo piano della cultura folclorica corrisponde alla diffusione di una coscienza nazionale, all’ingresso delle masse contadine nella vita politica dello Stato da realizzarsi con la conquista dell’egemonia da parte del Nord che dovrebbe guidare questo cambiamento. Il processo di inserimento delle forze rurali nello Stato deve coincidere con il loro passaggio, politico culturale e linguistico, dalla dimensione del campanile alla dimensione della città (città intesa come fulcro di irradiazione della cultura moderna e ufficiale), cioè con l’egemonia della città sulla campagna.
La subordinazione della campagna alla città e l’accettazione spontanea dell’egemonia di una città da parte di tutta la nazione, che in Machiavelli rimase solo un progetto, fu realizzata, durante la Rivoluzione, dall’ala giacobita della borghesia francese con la riforma agraria. La politica dei giacobini non fu solo economica ma anche culturale. La riforma agraria da sola non avrebbe potuto assicurare l’egemonia di Parigi se non fosse stata accompagnata da relativi processi di legittimazione culturale. I giacobini “portarono a compimento e al suo limite massimo l’endemica nazional-popolarità della borghesia francese: non solo essi organizzarono un governo borghese, cioè fecero della borghesia la classe dominante, ma fecero di più, crearono lo Stato borghese, fecero della borghesia la classe nazionale dirigente, egemone, cioè dettero allo Stato nuovo una base permanente, crearono la compatta nazione moderna francese. I francesi della provincia partecipando attivamente alla Rivoluzione e assumendo Parigi come modello culturale e linguistico, soffrono del loro isolamento culturale, abiurano le culture folklorico-provinciali da essi veicolate, si orientano spontaneamente verso l’acquisizione dell’idioma e dalla cultura di Parigi. L’acceleramento e la diffusione del processo di unificazione linguistica non fu soltanto il risultato spontaneo del coinvolgimento di tutta la nazione-popolo agli eventi rivoluzionari e al nuovo assetto sociale che si andava costruendo. La stessa partecipazione attiva alla Rivoluzione da parte della provincia e della campagna richiese la messa a punto di una politica linguistica. Gli anni della Rivoluzione furono punteggiati da un continuo discutere sui mezzi più opportuni per rimuovere le barriere linguistiche che rendevano difficile informare i francese della provincia e delle campagne e delle zone alloglotte su quanto veniva deciso nella capitale. La borghesia francese si trovò così, per la prima volta nella storia, ad affrontare la questione delle condizioni linguistiche di un potere che voglia reggersi su un consenso di massa o, in termini più gramsciani, di una egemonia che voglia estendersi su tutta la massa nazional-popolare.
La questione degli ostacoli linguistici e culturali che bisognava superare perché il contadino potesse essere legato alla Rivoluzione guidata da Parigi fu soprattutto affrontata dai giacobini. Da essi l’egemonia politica di Parigi sulla Francia rurale non fu separata dall’egemonia linguistica. Le linee direttive dalla politica linguistica giacobina sono contenute nel Rapport sur la necessité et les moyens d’aneatir les patoi et d’universaliser l’usage da la langue francaise che l’abate Gregoire lesse nel giugno del 1794 alla Convenzione. L’esigenza di assicurare un legame tra città e campagna con la subordinazione culturale della seconda alla prima è il tema dominante dei Rapport. Il punto di partenza teorico è che la lingua francese è l’idioma della libertà, il solo cemento linguistico che possa fondere tutti i cittadini nella massa nazionale. L’ignoranza della lingua nazionale e della cultura dei lumi è la naturale alleata di coloro che vogliono annullare le conquiste della Rivoluzione. Solo quanto la lingua francese sarà diventata la lingua di tutti i francesi e la distanza culturale e linguistica tra la città e la campagna sarà scomparsa, solo allora la Francia potrà essere una Repubblica di eguali.
Nonostante la sconfitta dei giacobini, le linee di fondo della loro politica culturale e linguistica furono mantenuto. La borghesia giacobina creò, anche sotto l’aspetto linguistico, la compatta nazione moderna francese. Con la Rivoluzione, la lingua diventa uno degli elementi essenziali della nazionalità. Parigi ne fu il centro d’irradiazione e il tessuto connettivo.
Nei Quaderni il giacobinismo non è solo un fatto storicamente circoscritto ma soprattutto una categoria teorica. Sono qualificati come giacobini tutti i raggruppamenti politici che soddisfino due esigenze: 1) Trasformano la borghesia da classe economico-corporativa in classe ‘universale’, capace cioè di esercitare egemonia anche su gruppi sociali non borghesi riuscendo a coinvolgerli nella realtà globale della nazione popolo; 2) Il centro di irradiazione di siffatti movimenti nazional-popoalri è la città. L’Italia, scrutata con questo modello di giacobinismo teorico è il paese in cui mancò sempre, e non poteva costituirsi, una forza giacobina efficiente, la forza appunto che nelle altre nazioni ha suscitato e organizzato la volontà collettiva nazionale-popolare e ha fondato gli Stati moderni, scrive Gramsci nel suo 13esimo quaderno.
L’Italia moderne non ebbe un centro in cui fervesse la vita della nazione intera, e da cui per ciò sgorgasse continuamente un pensiero o un linguaggio assorbente e collettivo: Firenze non è stata Parigi. Le storie dell’Italia e della Francia scorrono su binari differenti. In Italia “i laici hanno fallito al loro compito storico di educatori ed elaboratori della intellettualità e della coscienza morale del popolo-nazione, non hanno saputo dare una soddisfazione alle esigenze intellettuali del popolo: proprio per non aver rappresentato una cultura laica, per non aver saputo elaborare un moderno umanesimo capace di diffondersi fino agli strati più rozzi e incolti, come era necessario dal punto di vista nazionale, per essersi tenuti legati a un mondo antiquato, meschino, astratto, troppo individualistico o di casta. La letteratura popolare francese, che è la più diffusa in Italia, rappresenta invece, in maggiore o minore grado questo moderno umanesimo, questo laicismo a suo modo moderno” (q. 21). Il Partito d’Azione, che secondo Gramsci avrebbe dovuto rappresentare l’equivalente risorgimentale del giacobinismo, non seppe saldare la questione dell’unità nazionale con l’allargamento della base popolare dello Stato: “è evidente che per contrapporsi efficacemente ai moderati, il Partito d’Azione doveva legarsi alle masse rurali, specialmente meridionali, essere giacobino non solo per la forma esterna, di temperamento, ma specialmente per il contenuto economico-sociale: il collegamento delle diverse classi rurali che si realizzava in un blocco reazionario attraverso i diversi ceti intellettuali legittimisti-clericali poteva essere dissolto per addivenire ad una nuova formazione liberale-nazionale solo se si faceva forza in due direzioni: sui contadini di base, accettandone le rivendicazioni elementari e facendo di esse parte integrante del nuovo programma di governo, e sugli intellettuali degli strati medi e inferiori, concentrandoli e insistendo sui motivi che più li potevano interessare”. I risultati del non giacobinismo della borghesia risorgimentale furono la formazione di uno Stato unitario senza largo consenso popolare e la mancanza di una solida egemonia della città sulla campagna. L’assenza del giacobinismo continua, su scala moderna e sulla particolare questione del rapporto città-campagna, il corporativismo della borghesia medievale. Lingua unitaria cristallizzata, rigoglioso sopravvivere dei dialetti e delle culture folkloriche sono gli effetti linguistico-culturali del cronico corporativismo (o non giacobinismo) della borghesia italiana e della sua consequenziale incapacità a saper saldare la campagna alla città. La forza di coesione di una nazione-popolo è strettamente correlata al superamento della dimensione corporativa-campanilistica-folklorica-dialettale dei suoi componenti e all’estensione, geografica e sociale, di una lingua comune sovra dialettale. La formazione della nazione-popolo, unitaria non solo territorialmente ma soprattutto culturalmente, procede pertanto parallelamente al superamento dei dialetti nella lingua comune e delle culture folkloriche-municipali nelle cultura ufficiali e nazionali.
Nonostante gli innegabili progressi compiuti in cinquant’anni verso un’effettiva unificazione, politica, culturale, linguistica, si è ancora molto lontani dalla meta. La lingua del popolo è ancora il dialetto. “In Italia – scrive Gramsci – esiste un sentimento nazionale, non popolare-nazionale, cioè un sentimento puramente soggettivo, non legato a realtà, a fattori, a istituzioni oggettive. È perciò ancora un sentimento da intellettuali, che sentono la continuità della loro categoria e della loro storia, unica categoria che abbia avuto una storia ininterrotta. Un elemento oggettivo è la lingua, ma essa in Italia si alimenta poco, nel suo sviluppo, dalla lingua popolare che non esiste mentre esistono i dialetti”.  La nazione Italia ha, perciò, ancora una esistenza apparente e superficiale. È più nazione-retorica che nazione-popolo. La mancanza di una lingua nazionale e popolare ne è il sintomo più evidente. La politica culturale dei giacobini mancati del Partito d’Azione è una delle cause della debole coesione e compattezza, culturale e linguistica, dello Stato-nazionale-popolo formatosi col Risorgimento. Il Partito d’azione si comportò come se la cultura di tutta la nazione-popolo coincidesse con quella degli intellettuali, quella delle campagne con quella della città.
Nell’ultimo quaderno Gramsci scrive: “In realtà in questo ultimo secolo la cultura unitaria si è estesa e quindi anche una lingua unitaria comune. Ma tutta la formazione storica della nazione italiana era a ritmo troppo lento”. Per accelerarne il ritmo e fare così uscire la maggioranza degli italiani dalla loro esistenza campanilistica e dialettale, era necessario un movimento culturale e politico che coinvolgesse tutta la nazione-popolo. In Italia, quanto non fu realizzato dalla borghesia poteva ormai essere ottenuto solo col movimento socialista. “L’Italia è diventata una unità politica, perché una parte del suo popolo si è unificata intorno ad un’idea, ad un programma unico. Quest’idea, questa programma unico l’ha dato il socialismo, solo il socialismo. Esso ha fatto sì che un contadino della Puglia e un operaio del Biellese parlassero la stessa lingua, si trovassero, così lontani, a esprimersi in modo uguale in confronto di uno stesso fatto, a dare un giudizio uguale di un avvenimento, di un uomo. Il socialismo è diventato il solo ideale unitario del popolo italiano. Il socialismo è diventato la coscienza unitaria del popolo italiano”. La saldatura della campagna alla città rimane il momento fondamentale del processo di unificazione. Gli effetti linguistici del giacobinismo socialista saranno immediati come in Francia: “la propaganda socialista desta subito il sentimento vivo del non essere solo individui di una piccola cerchia d’interessi immediati, ma i cittadini di un mondo più vasto, con gli altri cittadini del quale bisogna scambiare idee, speranze, dolori. La cultura, l’alfabeto ha così acquistato uno scopo, e fino a quando questo scopo vive nelle coscienze, l’amore del sapere si affermerà imperioso. L’analfabetismo sparirà completamente, solo quando il socialismo l’avrà fatto sparire, perché il socialismo è l’unico ideale che può fare diventare cittadini, nel senso migliore e totale della parola, tutti gli italiani che ora vivono solo dei loro piccoli interessi personali, uomini nati solo a consumar vivande”. All’incapacità della borghesia italiana di diventare centro d’irradiazione di uno Stato-nazione-popolo e di superare la frattura culturale tra la città e la campagna corrisponde, pertanto, una sua correlativa incapacità di far sorgere una lingua nazionale popolare. La natura cristallizzata, ossificata, esperantistica della lingua nazionale è in rapporto speculare con l’unità burocratica dello Stato, cioè con la sua superficiale nazionalizzazione: la monarchia italiana è stata essenzialmente una monarchia burocratica e il re il primo dei funzionari, nel senso che la burocrazia era la sola forza unitaria del paese, permanentemente unitaria, e i burocrati sono “uomini indubbiamente di valore e di capacità dal punto di vista tecnico-professionale burocratico, ma senza legami continuati con l’opinione pubblica, cioè con la vita nazionale” (q. 14).
Il risultato di tutti questi processi è che esistono diverse lingue popolari (i dialetti) ma manca una lingua contemporaneamente popolare e nazionale. Ciò è causa ed effetto della frattura tra intellettuali e nazione-popolo; Ascoli scrive: “In Italia manca una lingua moderna in un senso molto preciso: 1) non esiste una concentrazione della classe colta unitaria, i cui componenti scrivano e parlino sempre una lingua viva unitaria, cioè diffusa ugualmente in tutti gli strati sociali e gruppi regionali del paese; 2) pertanto tra la classe colta e il popolo c’è un distacco marcato: la lingua del popolo è ancora il dialetto, col sussidio di un gergo italianizzante che in gran parte è il dialetto tradotto meccanicamente. Tutto ciò si riflette sul teatro: la non popolarità del teatro non dialettale è uno degli effetti più evidenti della non nazional-popolarità della lingua italiana. In un articolo comparso sull’Avanti! Gramsci sostiene che “il dialetto pone più rapidamente a contatto le due parti (attori e pubblico) del teatro, le fa collaborare, suscita impressioni immediate, perché il dialetto è sempre il linguaggio più proprio della maggioranza, mentre la lingua letteraria ha bisogno di una traduzione interiore che diminuisce la spontaneità della reazione fantastica, la freschezza della comprensione”. L’intellettuale dell’Italia unita si trova dinanzi ad una scelta simile a quella dell’intellettuale prerisorgimentale. O scrive in lingua nazionale, ma non riesce a mettersi all’unisono con il pubblico (è il caso di Liolà di Pirandello tradotto in italiano letterario; o scrive in dialetto, cioè in una delle tante lingue popolari. Il suo pubblico è allora popolare e regionale, ma non  nazionale: è il caso delle commedie di Capuana che solo in dialetto ebbero successo. In entrambi i casi, si inciampa nel grande assente della storia d’Italia: il popolo-nazione. Lo Stato unitario è costruito sulla medesima assenza. “Nella storia del secolo XIX non ci poteva essere unità nazionale, mancando l’elemento permanente, il popolo-nazione. La tendenza dinastica da una parte doveva prevalere dato l’apporto che le dava l’apparato statale e le tendenze politiche più opposte non potevano avere un minimo comune di obiettività: la storia era propaganda politica, tendeva a creare l’unità nazionale, cioè la nazione, dall’esterno contro la tradizione, basandosi sulla letteratura, era un voler essere, non un dover essere perché esistono le condizioni di fatto. Per questa loro stessa posizione gli intellettuali dovevano distinguersi dal popolo, mettersene fuori, creare tra loro o rafforzare lo spirito di casta, e nel loro fondo diffidare del popolo, sentirlo estraneo, averne paura, perché in realtà era qualcosa di sconosciuto”. La storia d’Italia disegnata da Gramsci è percorsa da tre fratture: Stato nazione / nazione popolo; intellettuali / nazione popolo; lingua nazionale / nazione popolo. Tutte e tre sono manifestazioni diverse della insufficiente unificazione in senso nazionalpopolare dell’Italia post-risorgimentale e sono riconducibili alla mancanza di una effettiva egemonia della città sulla campagna. In Italia nemmeno quella immensa città metaforica che è il Nord si è trasformata in polo d’attrazione culturale, operante in profondità, della immensa campagna meridionale. Nella terminologia gramsciana, l’Italia del nord esercita la funzione di dominio e non di dirigenza.
Al lato pratico, che fare per diffondere una lingua nazionale? Per Gramsci è assolutamente necessario che nelle scuole sia insegnata ai bambini la lingua italiana. Ma l’attività formativa della scuola non si svolge sul niente e dal niente: in realtà essa è in concorrenza e in contraddittorio con altre concezioni esplicite e implicite e tra queste non delle minori e meno tenaci è il folclore. Conoscere il folclore significa per l’insegnante conoscere quali altre concezioni del mondo e della vita lavorano di fatto alla formazione intellettuale e morale delle generazioni più giovani e sostituirle con concezioni ritenute superiori. L’attività educativa della scuola può quindi essere efficace solo in quanto il maestro è consapevole dei contrasti tra il tipo di società e di cultura che egli rappresenta e il tipo di società e di cultura che rappresentano gli allievi ed è consapevole del suo compito che consiste nell’accelerare e nel disciplinare la formazione del fanciullo conforme al tipo superiore in lotta col tipo inferiore. (vedi q. 27)
La superiorità semantico-culturale della lingua sul dialetto non si traduce immediatamente ed automaticamente in vantaggio intellettuale e scolastico dell’italofono sul dialettofono. Perché il vantaggio iniziale dell’italofono possa mantenersi è necessario che, da parte dell’italofono, ci sia la consapevolezza che “anche lo studio è un mestiere, e molto faticoso, con un suo speciale tirocinio, oltre che intellettuale, anche muscolare- nervoso: è un processo di adattamento”. Il bambino italofono, nel primo impatto con la scuola, incontra meno difficoltà e meno ostacoli di chi parla spontaneamente e fin dalla nascita una lingua diversa da quella scolastica e, proprio per la sua iniziale facilità ad apprendere, è portato a non mettere a frutto il principio che lo studio richiede dura e faticosa disciplina. Il vantaggio può allora a lungo andare trasformarsi in uno svantaggio.
Stile e egemonia Una volta fatta una scelta di campo per la lingua italiana, un nuovo problema sorge? Quale lingua italiana usare? E poi, il popolo, cioè chi non fa professione di intellettuale, che tipo di lingua italiane scrive? I giudizi di Gramsci sono severi e si ispirano al più rigoroso e scientifico non populismo. Le scritture popolari non sono ritenute scientificamente apprezzabili senza un loro confronto con le scritture degli intellettuali: “le classi subalterne cercano di parlare come le classi dominanti e gli intellettuali” (q. 29). Anche sul piano linguistico, la questione dell’atteggiamento delle massi popolari non può essere impostata indipendentemente da quella delle classi dirigenti: se si può dire che ogni gruppo sociale ha una sua lingua, tuttavia occorre notare che tra la lingua popolare e quella delle classi colte c’è una continua aderenza e un continuo scambio. Nessun gruppo sociale è produttore autonomo di una cultura e di una lingua. Dal momento che la storia linguistica e culturale della nazione-popolo è intrecciata con la storia linguistica e culturale dei suoi dirigenti, è preliminarmente indispensabile conoscere con quali produzioni letterarie colte gli elementi popolari vengono di solito in contatto e dove e per quali canali, pertanto si forma il gusto e lo stile di chi, pur non essendo professionalmente intellettuale, scrive in lingua letteraria. Lo stile retorico, melodrammatico e a volte anche burocratico di alcune scritture popolari appare a Gramsci come un sottoprodotto dello stile oratorio con cui le classi dirigenti e gli intellettuali si rivolgono al pubblico. La presenza del linguaggio burocratico in semplici scritture popolari è uno dei tanti segni che indicano che dello stato e della sua classe dirigente le classi subalterne hanno conosciuto soprattutto la facciata burocratica. “Occorre dire che in questi anni le cose sono molto migliorate: D’annunzio è stato l’ultimo accesso di malattia del popolo italiano”. La prosa sobria e semplice di Benedetto Croce è un esempio di come un intellettuale possa essere relativamente popolare senza abbandonare il rigore e le astrazioni del procedere scientifico. La novità del Croce come stile è, nel campo della prosa scientifica, la capacità di esprimere con grande semplicità e con grande nerbo insieme una materia che di solito, negli altri scrittori, si presenta in forma prolissa e oscura. Benedetto Croce è dunque per Gramsci un modello linguistico da studiare e imitare. E stile sobrio e misurato non significa stile a tutti i costi e immediatamente facile. La difficoltà dello stile non deve spingersi fino allo snaturamento delle difficoltà insite in ogni argomentare scientifico. Nella questione dello stile si incontra di nuovo uno dei problemi fondamentali della politica e della teoria gramsciana: a quale livello culturale produrre egemonia? La nazionalpopolizzazione della cultura e il relativo contatto tra intellettuali e semplici debbono comportare una limitazione dell’attività scientifica e la formazione di una unità culturale al basso livello delle masse? Oppure la costruzione di un blocco intellettuale-morale che renda politicamente possibile un progresso intellettuale di mass e non solo di scarsi gruppi intellettuali?. Per Gramsci la auspicata riforma intellettuale e morale deve coniugare la finezza intellettuale del Rinascimento e il carattere di massa del protestantesimo. La pedagogia delle giuste difficoltà è, a questo scopo, la sola considerata democratica e non populista; “i settimanali socialisti si adattano al livello medio dei ceti regionali ai quali si rivolgono; il tono degli scritti e della propaganda deve però sempre essere un tantino superiore a questa media, perché ci sia uno stimolo al progresso intellettuale, perché almeno un certo numero di lavoratori esca dall’indistinto generico delle rimasticature da opuscoletti, e consolidi il suo spirito in una visione critica superiore alla storia e del mondo in cui vive e lotta. E noi si dovrebbe rimanere sempre alle georgiche, al socialismo agreste e idilliaco? Si dovrebbe sempre ripetere l’abecedario dato che c’è sempre qualcuno che l’abecedario non conosce?” (q. 11).

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